Cronache da un terremoto vissuto da lontano

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Di notte dormo, poi a volte capita di svegliarmi prima che sia giorno ritarare con un occhio i contorni del contorno poi riprendere a dormire e quello è il sonno- veglia, che dura poco ancora la salivazione stordita prima, aumenta e quando di nuovo mi risveglio trovo il cerchio di saliva sul cuscino oppure sulla mano, tiro su la testa e si distende il filo di ragno luccicante acqua e colla che uniscono l’angolo della bocca al mondo intorno me al reale, in filo tenero e leggero ed io gli lascio tutto il tempo dello stacco. Ma il filo una mattina s’è spezzato scontrollata la lentezza del risveglio spezzata dalla voce “crolla il mondo!”.

Le otto di mattina di un lunedì d’aprile e torna più crudele un’altra volta il mese del principio di stagione. La voce annuncia, voce di sorella le voci che si aggiungono sono tante tante e mille e poi pietre, immagini scagliate e scritte più ancora telefonare telefonare telefonare cerca qui cerca là, voglio sapere subito chi manca. Poi rallento, ricomincio a respirare perché io maledetta sto lontana devo solo materializzare me nel sogno di case di biscotti senza Hänsel e Gretel e senza strega vere e tutte secche che si sbriciolano le macerie non sanno di vaniglia ma puzzano di gas e di cantina -lo dice una bambina della storia.

E’ crollato alla fine il muro della nostra certezza di campare sempre protetti da questo ovest facilone dorato di spray come le pigne di Natale. Crollato è anche per noi un nostro mondo noi che eravamo come tutti fermi al Muro che venne giù in quell’autunno ‘89 portando però solo detriti di Bellezza che tutti abbiamo usato per ornare i nostri vestitini di speranza. Invece no, stavolta qui mi cade un pezzo d’infanzia, un pezzo di radice la radice sottile ma profonda che si attacca a vena aorta e giugulare. E a pensarci potrebbe essere colpa del Gigante quel Gran Sasso che tutti chiamano Gigante che dal dormire magari alzandosi ha combinato tutto questo pandemonio. Ma poi in fondo no, non è questo perché ogni bambino d’Abruzzo lo conosce e ne ha paura o solo fa la parte quando viene minacciato dalla nonna perché stia calmo, perché non strazi il gatto, perché dorma: quello è un Gigante tutto buono che ripara dai venti e fa bello l’orizzonte no, qui è un altro il cattivo o sono tanti.

Le ore passano, si continua a lavorare in quest’isola distante e sicura da ogni male ma è strano, è come se ci fosse una sorta di colpa nel non stare nelle attese deliranti di qualche altro colpo di tremore nell’umorismo nero, un po’ giudaico di chi crede ma prende in giro Dio di chi ha paura ma beve e mangia e si scompiscia di risate alla paura di chi gli è vicino di chi beve mangia e si scompiscia e chiama la paura esagerata di chi beve mangia e un poco ride di chi dorme in macchina gelando perché gli manca la calma di una casa di chi beve mangia si scompiscia di derisione scaramantica e poi dorme in macchina e ha paura più degli altri ha paura e non dorme e non si stanca.

Perché poi la differenza è tutta questa: ci sono i vivi e i morti e si distinguono nel ridere nel bere e nel mangiare nel non riuscire a dormire che è la massima espressione di vivezza. Ma tanti troppi dormono e hanno mandato i cani a ricercarli ma i cani uggiolano davanti al sonno e poche volte hanno abbaiato in segno di risata.

Ritorniamo ora, io e te, che l’amore ha reso così tenui -love will tear us apart, again- ritorniamo dall’isola e andiamo verso il nero e già il confine, il principio della terra ci aspetta sbuffante nebbia bianca. Noi che abbiamo avuto la fortuna o la sfortuna di studiare le stesse pagine di libri di leggere le stesse scritte sopra i muri noi così minuscoli ora accomunati dalla stessa terra instabile che ci rende instabili i pensieri che risucchia ogni piantina di futuro. Invece è sbagliato nuovamente il mio pensiero, il primo, il più scontato perché è proprio questo il tempo del futuro il tempo in cui la terra ti spinge in energia a capire a vedere chiarezza di sistemi a illuminare ombre col fiammifero a intendere te stesso insieme a tutti gli altri a fare di sguardo e di parole un vangelo di lettura intelligente a scoprire che da qualche parte nasce il dolore più spietato e tanti da lontano dovrebbero sentire.

E’ come essere in un’isola lontana guardare la mia terra sussultare e tutta rompersi soffrire da lontano e volermi avvicinare. Il discorso vale sempre, è uguale qualsiasi dolore lontano d’altra gente dovrebbe provocarci di farci avvicinare. Così vanno le cose, burrasca di questioni burrasca di domande, cementi che si spezzano e troppi altri sponderati sregolati da volere costruire fino a che non arriva una natura a scoprire il coperchio delle pentole che bollono a scoprirci la coscienza disarmata. Certo poi c’è sempre la scelta di qualcuno di non bollire affatto o coprirsi con un velo più pesante.

Mariagiorgia Ulbar, poetessa abruzzese e cara amica